Censimento forni da pane Comune di Malegno
Testo e immagini di S. Furloni
La ricerca sulla memoria di coltivazioni, mulini e forni è stata difficoltosa, ma molto partecipata dalla popolazione del paese ed entusiasmante: dietro alle interviste raccolte e alla scoperta di manufatti e oggetti, una volta quotidiani e oggi dimenticati, c’è una comunità contadina laboriosa e ricca di memoria.
I malegnesi, ben consci dell’ambiente e delle tradizioni, sfruttavano tutto il territorio presente sul proprio comune per adibirlo alla produzione di vigneti e patate sui terrazzamenti posti a nord-est, mentre coltivavano granoturco, il quarantì (granoturco che maturava in quattro mesi), frumento e segale (solo per gli animali) nella parte a sud del paese, l’attuale via Campello e Cava. Qui il colore dorato del grano e i tralci dell’uva sono stati poi via via sostituiti da strade asfaltate e da abitazioni che, dagli anni ‘60 -’70, hanno a poco a poco cambiato il paesaggio.
L’esodo delle famiglie dal centro storico (attorno alla chiesa parrocchiale) verso le aree residenziali a sud dell’abitato ha causato l’abbandono di molte attività commerciali, precedentemente ben radicate tra le antiche vie. Nel cuore del paese, tra via Piazzuola e via Sant’Andrea, c’erano ben 4 forni commerciali di: Guarinoni (figlio del Bàla) dal 1896 al 1914 poi trasferito in via Lanico, e gestito dalla famiglia Gazzoli; Guarinoni Andrea (Patola), Scolari Luigi (Fanti) fino agli anni ‘50 poi la licenza è stata venduta a Leandro Furloni, e le sorelle Domenighini. Ogni mattina sfornavano il pane per la popolazione che, negli anni ‘60, ha svestito gli abiti logori da contadini per indossare una “tuta blu”. Gli operai, al suono della sirena, scendevano a passi felpati per raggiungere la fabbrica della Selva con un cestino che conteneva il pane appena acquistato dal fornaio in centro storico oppure nel forno commerciale di Gazzoli, mentre i più fortunati avevano le mamme o le mogli che, al suono della campana di mezzogiorno, portavano loro il pranzo.
L’area attorno alla fabbrica era la vecchia zona artigianale di Malegno che sfruttava l’acqua dell’Aivàl per azionare alcune fucine, segherie e due mulini, uno dei quali rimasto funzionante fino ai primi anni ‘90 e gestito dalla famiglia Furloni Fói. Qui, i malegnesi e gli abitanti dei paesi limitrofi, venivano a macinare i cereali coltivati. La farina ottenuta serviva per impastare il pane una volta a settimana e le spongàde la settimana prima di Pasqua. Chi coltivava una quantità non sufficiente di cereali acquistava il grano da macinare oppure direttamente la farina e, durante il periodo fascista, ci si recava anche nei centri della bassa bresciana per comprarla al mercato nero. La cottura avveniva nei forni domestici, alcuni dei quali costruiti durante la guerra per sfamarsi con il pane bianco; mentre in altri casi si preparava l’impasto e si portava a far cuocere nei forni commerciali. L’indagine sulla presenza dei forni all’interno delle case è partita da due semplici ragionamenti: le famiglie contadine che lavoravano la terra possedevano i cereali da macinare e quindi la farina per produrre e cuocere il pane, gli altri dovevano acquistarla e, perciò, era più difficile che avessero costruito un forno. In secondo luogo i parenti dei proprietari dei forni commerciali andavano ad acquistare il pane direttamente dal fornaio oppure portavano l’impasto per la cottura, ma non lo cuocevano in casa.
I 21 forni familiari censiti nelle abitazioni di Malegno si trovano soprattutto in centro storico, 2 sono nella zona periferica in via Sant’Antonio, nella casa dove c’era anche il mulino, e 1 in località Creone, traccia di una piccola comunità fuori paese dove il pane non poteva certo mancare. Questi, purtroppo, si spegneranno lentamente nel dopoguerra e verranno definitivamente abbandonati negli anni ’70, nella maggior parte dei casi, distrutti o murati con la ristrutturazione degli edifici. Pochi proprietari hanno deciso di mantenere la struttura originale, forse per preservare i ricordi e gli oggetti che erano e sono parte della storia di famiglia: sono ancora 7 i forni esistenti, testimonianza di una cultura del pane ben radicata in paese.
La preparazione del pane e delle spongàde è ancora viva nei ricordi. Basta poco per rivivere le parole e i gesti delle donne che impastano faticosamente il bufet, gli occhi vigili e in trepidante attesa che osservano il forno “diventare bianco”, gli sguardi speranzosi che osservano le spongàde lievitare e l’allegria dei bambini che seguivano il profumo della cottura fuoriuscire delle case e invadere le strette vie del paese fino ad innalzarsi ai terrazzamenti di Castignét.