La parrocchiale dedicata a Sant’Andrea apostolo si erge imponente sul dosso anticamente denominato “Castello” forse più per la sua collocazione elevata che per l’esistenza in loco di un antico maniero.
La si volle in sostituzione della vetusta ed ormai insufficiente parrocchiale, avente il medesimo titolo, la cui edificazione, per le vestigia di murature romaniche ancora visibili sull’esterno dell’abside, è da collocarsi attorno al XII secolo.
Essa, eretta a lato dell’antica strada che da Breno, passando per il Santel de l’Ora, scavalcava d’un balzo il torrente Lanico e portava il viandante suLla via per Ossimo, non venne distrutta o rammodernata; venne lasciata così com’era e com’è, ricca ancora dei suoi affreschi trecenteschi e rinascimentali, testimone della devozione secolare dei malegnesi, che tuttavia agli albori del nascente diciassettesimo secolo avvertirono il bisogno di un nuovo e dignitoso tempio.
I vicini, come a quel tempo venivano designati gli abitanti originari del comune, affidarono il progetto ad Antonio Spazzi, detto anche Spazio o Spatti, capomastro ed architetto allora di gran grido.
Egli apparteneva ad una famiglia di maestri da muro originaria della Val d’Intelvi, terra famosa fin dal Medioevo per tradizioni edificatorie: gran parte di ignoti costruttori, detti comacini, provenivano da quelle zone.

Il padre Francesco appronterà più tardi (1708), la nuova chiesa di Ceto; mentre lo stesso Antonio avrà più fortuna: nel 1714 disegnerà il progetto della chiesa della Visitazione in Salò, e presiederà per lungo tempo ai lavori della costruzione di uno dei più famosi templi di Brescia, Santa Maria della Pace. Nella parrocchiale di Malegno lo Spazzi si rivela buon architetto, anche se sembra ancora attenersi ai rigidi canoni dell’architettura controriformista, le cui regole, dettate da San Carlo, costrinsero l’arte religiosa di tutto il Seicento e di buona parte della prima metà del Settecento.
L’edificio si presenta a pianta longitudinale, con navata rettangolare e presbiterio a tavola quadra; questo si prolunga in un’abside appena accennata, la cui parete di fondo si inflette delineando uno spazio ricurvo.
Le murate della navata si sfondano per dar luogo a quattro cappelle laterali, profondamente incassante entro arconi a tutto sesto.
Le lesene che scandiscono le cappelle sono coronate da capitelli corinzi, sopra i quali si impostano la trabeazione ed il cornicione, molto aggettante, retto da mensoloni.
Esso segna il punto di innesto dell’alta volta ripartita in due padiglioni e rischiarata da ampie finestre rettangolari.

L’insieme dell’interno, pur nella sobrietà dei volumi, è armonioso e non privo di monumentale solennità. Il campanile si erge sul fianco destro dell’edificio e chiude con il suo slancio verticale il ritmo dei contrafforti che sull’esterno sostengono le pareti della chiesa, bilanciando il peso delle alte volte interne. Curiosa la cupoletta alla “veneta” posta a coronamento della cella campanaria. La facciata si innalza, e quasi incombe, sulla murata eretta a sostegno della chiesa.
Come tutte le facciate di chiese settecentesche è suddivisa su due ordini di lesene da un cornicione marcapiano.
Dorico è l’ordine inferiore, mentre ionico risulta quello superiore.
Il timpano curvilineo ingentilisce il rigore formale dell’insieme, attenuato anche dall’artistico portalino in marmo di Botticino recante, nel cartiglio, la data 1767.
Essa è apposta in calce alla breve scritta tesa ad avvertire il devoto che la porta che varca lo immette nel tempio dedicato a Dio Ottimo e Massimo ed a Sant’Andrea.
Deboli, anche per le numerose ridipinture, sono le opere ad affresco che decorano le volte dell’interno. Sembrano di mano settecentesca, anche se qualche particolare rimanda ad epoche successive.

Le velette raffigurano gli apostoli, mentre nelle coperture l’anonimo pittore ha effigiato alcuni episodi tratti dalla vita di sant’Andrea.
Innanzitutto, interpretando alla sua maniera il passo dell’evangelo di Giovanni in cui Andrea presenta il Messia al fratello Simone, raffigura il primo papa genuflesso in adorazione di un Cristo, già glorificato, additatogli dal fratello Andrea.
Il secondo episodio non è null’altro che la trasposizione figurata della grande scritta latina che corre a lettere dorate sotto il cornicione “O bona crux, quac decorem… “.
E’ Andrea che saluta la croce strumento del suo martirio, ma anche patibolo del suo Maestro.
Il ciclo culmina nella cupoletta del presbiterio, con la glorificazione del santo; ricorrendo ad un artificio pittorico, l’artista ha dipinto sulla volta del presbiterio una falsa architettura, quasi un prolungamento della cupola, che tuttavia si sfronda, per dar luogo alla visione di Sant’Andrea assiso su un trono di nubi mentre, estatico, si appresta ad entrare nella gloria celeste. Ultima opera a fresco presente nella chiesa, è la grande scena della crocifissione di Sant’Andrea ubicata nell’abside, firmata dal pittore esinese Antonio Guadagnini e datata 1883; essa ha malauguratamente sostituito l’antica e bella pala, ariosa per composizione e colori, raffigurante una Madonna con Bambino tra i santi Andrea e Rocco, ora depositata e quasi tristemente dimenticata nella chiesa vecchia. Era ed è opera tra le meglio riuscite di Nicola Grisiani.
Il Guadagnini, ottimo ritrattista, non si rivela in questo caso all’altezza della sua fama, contentandosi di riprodurre una scena gremita di personaggi e dominata dalla croce a cui è affisso il vecchio e barbuto santo; ma nulla di patetico e drammatico traspare dalla figurazione, resa con scenografica teatralità: i vari personaggi sembrano più posare per una recita, che veramente partecipare ad un dramma.
Ma se gli affreschi non destano l’entusiasmo del visitatore e della critica artistica, la parrocchiale di Malegno può andare giustamente orgogliosa dei suoi cinque altari, veri monumenti d’arte marmorea, che incorniciano tele di elevata qualità pittorica.