Intervista a Silvia Pessognelli.

Silvia e Pieruccio sono i preziosi custodi dei segreti del forno di famiglia ereditato dal nonno Bortolo detto il Castignì.
La casa in Vicolo Comunale conserva le caratteristiche delle antiche abitazioni contadine: dotata di aia, solaio, stalle e fienile e, proprio nella piccola cucina della nonna, funziona ancora oggi come un tempo il forno per il pane.
La volta del forno è in mattone refrattario, è dotato di una canna fumaria collegata al camino adiacente e se si riempie bene ci stanno quasi 30 panini per infornata. In cucina ci sono ancora tutti gli attrezzi necessari per la panificazione: la paletta in legno e ferro, la raspa per le braci, lo straccio di juta per pulire la base dalla cenere, la bacinella per l’impasto e il cestino di vimini per la conservazione dopo la cottura.
I coniugi Odelli si dedicano ancora oggi all’agricoltura e, in quanto esperti, ci dicono che la legna migliore per cuocere il pane sono i tralci della vite (trós) e la parte radicale del mais: “le focacce fatte con i tralci della vite sono più buone di quelle fatte con l’altra legna! Il rubino (robinia) è proibito, e anche l’orniello!” Chi impasta il pane è Pieruccio perché ha le braccia più forti, l’impasto si fa lievitare in cucina dove fa più caldo e poi si infornano i panini lievitati nel forno.
Gli impasti preparati sono vari: pane bianco, quello di patate e addirittura il pane di mais. Per il pane bianco la farina di tipo 00 viene acquistata, mentre il mais è di loro produzione (mais bianco, mais nero spinoso, mais nero), così le patate.

Silvia ci racconta: “la mamma di Pieruccio è morta nel 1982 e siccome aveva un forno così bello per fare il pane e soprattutto le focacce, ho chiesto a mio suocero se potevo usarlo. L’ho ripulito perché era pieno di ogni ben di Dio. Pieruccio chiede a suo padre per quanto tempo deve fare fuoco e lui gli risponde: “quanto basta”… allora accendiamo il fuoco, il forno diventa nero, e poi bianco, poi ancora nero e poi ancora bianco e quando abbiamo messo le focacce sono uscite nere, sembravano carbone! Poi abbiamo imparato a usare il forno, non è mica facile eh! Si deve andare a occhio, non avevamo il termostato!”

“…i primi 10 minuti si lascia chiuso con il teschio, poi lo tolgo e vedo come è il colore delle spongade, a occhio si capisce il grado di cottura. Se le voglio chiare finisco di cuocerle con il teschio aperto, sennò lo richiudo per ancora 10 minuti. Tutto il paese faceva le spongade per Pasqua e se ne sentiva il profumo ovunque… ogni tanto i forni erano così pieni che andavo a fare le spongade dal Barba Giacùm (della famiglia dei Michei) in Via Torre… c’era anche chi rubava le spongàde… e scappava contento!”

“Quando finivamo di radanà (rincalzare) le patate e la mèlga (il mais), il giorno di S. Pietro, facevamo i biscotti, erano rotondi, non venivano messi direttamente nel forno ma su una teglia di ferro… sennò come si faceva a toglierli da lì poi?”